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Love Amongst Ruin

w/ Spiral 69

https://www.inkoma.com/k/3241

Live @ Circolo degli Artisti, Roma, 6 ottobre 2010, ingr. 15 euro

 | Enantiodromica
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Arrivo in ritardo, come al solito, in tempo per sentire giusto l'ultimo pezzo del gruppo d'apertura, i romani Spiral 69, i quali mi sembra facciano un onesto pop-rock un po' new wave e appena gotico, con voce maschile e bella pianista darkettona al seguito, e promuovono il loro primo album, A filthy lesson for lovers uscito il 5 ottobre per la Megasound rec.
Poi, dopo un bicchiere di vino, mi guardo intorno e comincio a studiare la situazione. 
Quando ci sono Inglesi e soldi c'è professionalità.
C'è un banco vendite che sembra una tavola imbandita per dodici persone con magliette di tutti i tipi, album, singoli, posters, borse, spillette (chi più ne ha più ne metta) e ben due (e dico due) addetti allo smercio di cotanta abbundantia.
Questo fatto mi spinge alla prima ponderosa riflessione su come oggi tutto sia consumistico e precorritore della sostanza stessa di un fenomeno. Mi spiego meglio. Come fa una band formatasi soltanto un paio di anni fa e della quale, comunque, l'album omonimo di debutto è uscito da appena poco più di un mese (tramite la stessa etichetta di Hewitt, la Ancient B rec), come fa una costola infelice nata dalla singola cenere di un'altra band (i Placebo) che, almeno, aveva (ha) dalla sua parte caratteristiche di personalità e peculiarità, ad avere GIA' quattro diversi tipi di magliette e un armamentario degno dei Pink Floyd all'apice della loro carriera?
Non dovrebbero PRIMA diventare famosi e POI atteggiarsi a tali?
Ma, quando ci sono Inglesi e soldi, c'è marketing. Poi ci sono l'accordatore sul palco (prima che entri la band) e l'omino tutto-fare che si aggira, indaffarato, controllando i collegamenti dei vari cavi, distribuendo bottigliette d'acqua (due a persona), asciugamani bianchi detergi-sudore e attaccando i fogli delle scalette con lo scotch-carta. Il tutto per ogni membro della band. 
E sono sei. Lui, Steve Hewitt, l'ex-batterista dei Placebo, appunto, usa la voce, il tamburello e una chitarra da mancino, poi c'è la prima chitarra (Steve Hove), la seconda chitarra (Donald Ross), la donna bassista e contrabbassista elettrica (Teresa Morini), il batterista (Keith York) e il tastierista, suonatore di piatto singolo e tamburello e, all'occorrenza, anche suonatore di violoncello elettrico (Laurie Ross).
Mancano due cose fondamentali: la musica e la gente. La gente perché, come dicevo già ieri, questo mondo produce troppo e apprezza poco e, forse, in questo caso, ha ben poco da apprezzare. Al di là di considerazioni personali, stare dietro a tutti questi concerti, per non parlare di tutti i dischi, comporta un notevole dispendio in termini sia di energie fisiche che di soldi. E poi la musica. Diciamo un buon (???) pop-rock molto tradizionale, senza infamia né lode, indubbiamente ben eseguito ma senza calore. A me non arriva un colpo al cuore, né uno spruzzo di sudore, né una goccia di sangue, né una bava di saliva, né il graffio di un suono o il guizzo di un'originalità. Niente di niente. Soltanto una sequela di note banali, in stilemi integralmente precostituiti, vecchi, aridi, patinati e plastificati. Leggo altre recensioni in cui i Love Amongst Ruin vengono accostati ai Depeche Mode (?), ai New Order (??), ai Kasabian (!), ai Metallica (?!), ai Can (??!!) e mi domando come sia possibile.
Poi mi ricordo che, quando ci sono Inglesi e soldi, a volte, ci sono anche gigantesche operazioni commerciali. Ne avevamo bisogno?



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